Musicare un testo (anche sacro) vuol dire “interpretarlo” – I parte

Credo possa essere evidente a tutti, anche a coloro che non scrivono musica, che l’atto di musicare un testo letterario comporta un approccio compositivo piuttosto diverso da quello adottato quando si scrive per un organico strumentale. Nel secondo caso occorre pensare, anche in base a delle eventuali idee tematiche di partenza, ad un “progetto compositivo” preventivo ed indipendente, ad una struttura formale e ad un “clima emotivo ed espressivo” entro i quali si dispiegherà il discorso musicale.

Nel caso si abbia invece a che fare con un testo sarà naturalmente anch’esso a “condizionare” il processo creativo in maniera determinante e a dettare tutta una serie di “suggerimenti” artistici e formali; persino qualora si scelga di trattare il testo a prescindere dai suoi contenuti “semantici” e dalla “tradizione” o dall’ambiente culturale da cui proviene, quindi  trattandolo sostanzialmente come un “pretesto”, non si potrà comunque prescindere dai suoi aspetti più strettamente “formali”, strutturali e fonetici. Facendo riferimento soprattutto al primo tipo di approccio, quello più istintivo e consueto, e non a quello “strutturalista”, musicare un testo vorrà quindi dire, inevitabilmente, interpretarlo.

Tale atto ermeneutico si manifesterà in molti modi: nell’individuare il carattere emotivo espresso dalle sue varie parti, nello stabilire quali tra questi sia quello dominante, nel decidere quali sezioni (frasi, parole) del testo mettere più in evidenza attraverso ripetizioni, intensificazioni del discorso musicale e via dicendo. Si potrebbe obbiettare che il testo vada compreso prima che (o anzichè) interpretato ma credo che tutti dovremmo essere ormai consapevoli di come quella che chiamiamo comprensione, ancorchè sostenuta da tutte le possibile competenze filologiche, analitiche e storiche, sia già inevitabilmente, almeno in una certa misura, una forma d’interpretazione. Ricollegandomi ad un precedente articolo apparso in questo blog dal titolo “Comporre per la liturgia: ricercare la Bellezza in Umiltà“, nel quale presentavo alcune considerazioni dettate dalla mia “personale” esperienza di compositore anche di musica sacra e liturgica, credo di poter affermare che questi aspetti ermeneutici del musicare un testo acquistino, in tale contesto, un significato assai complesso.

Scrivevo nell’articolo citato:

“La musica per la liturgia è musica “funzionale”; la creatività del compositore non può dunque prescindere dal contesto in cui si trova ad operare, quello della celebrazione liturgica, che impone tempi, spazi, finalità. …La “funzione” in questione, però, è, per il musicista credente… tutt’altro che “svilente”. Dovrebbe trattarsi invece…del compito più nobile, alto e gravoso; quello, cioè,  di farsi portavoce attraverso l’arte del dialogo tra Dio e il suo popolo, di “vestire” musicalmente, quindi, la Parola che Dio rivolge al credente e la preghiera che la comunità dei fedeli rivolge al proprio Dio.”

Ed ancora:

“Inoltre, se la musica liturgica è “preghiera”, essa DEVE impegnarsi ad esaltare il contenuto testuale, secondo la sensibilità del compositore. A seconda dei modelli “storici” che il compositore decida di prendere a riferimento, del carattere specifico della singola celebrazione, del contesto “liturgico” ed “ambientale” e, in determinati limiti, della tradizione liturgica locale, egli può optare per differenti scelte stilistiche. Può, ad esempio, decidere per un linguaggio più emozionale, valorizzando ed esaltando dunque i contenuti “emotivi” del testo, oppure più “oggettivo”, “contemplativo”, in cui la musica ricerchi una sorta di bellezza formale apollinea, “atarassica”, dalla quale il testo possa emergere “puro”, “impassibile”, come scolpito in una pietra secolare.”

Alla luce di quanto detto in precedenza, apparirà però inevitabile che anche nell’atto di vestire musicalmente un testo sacro (liturgico o meno) il compositore non potrà esimersi dall’assumere un particolare atteggiamento interpretativo, in un certo qual modo esprimendo una sorta di posizione “teologica”; ciò pone senz’altro alcune delicate questioni e può essere essenzialmente visto o come un serio problema o come una preziosa risorsa.

Qualora si consideri ogni sorta di “mediazione individuale” come una “corruzione” del testo biblico nella sua intangibile purezza si giudicherà gioco forza in modo molto negativo una tale “compromissione”. A questa posizione si può però contrapporre quella che vede, in ogni “mediazione individuale”, un arricchimento nell’esperienza dell’ascolto della Parola di Dio ed una testimonianza della sua inesauribile ricchezza e vitalità. Quest’ultimo argomento ha, a mio parere, almeno un paio di buoni motivi per essere sostenuto.

Uno tra questi si riallaccia al concetto già precedentemente espresso, ampiamente rappresentato nelle moderne tendenze ermeneutiche presenti in molti ambiti culturali della modernità (filosofia, filologia, studi storici, ecc.), il quale ritiene il processo di lettura e comprensione di un testo essere in se stesso, almeno in una certa misura, un atto intrinsecamente interpretativo, dipendente da “condizionamenti” tanto individuali quanto storico-culturali.

Questo non comporta necessariamente lo scivolamento in una sorta di “relativismo assoluto”, incompatibile con una rivelazione religiosa in quanto negatore dell’esistenza di una Verità stabile ed incondizionata; piuttosto significa arricchire dell’aspetto “esperienziale” ( e, per ciò stesso individuale) un concetto di Verità esclusivamente intellettuale ed impersonale. Non è forse definito il Dio cristiano “il Dio “Vivente”? Non è forse la sua Parola “Parola viva e di vita”? Non è forse un’esperienza personale quella del rapporto del credente con Essa? Si potrebbe forse dire che nella Fede, attorno ad un nucleo fermo, inamovibile e saldo, ruota una dimensione “mobile”, proprio quella che permette alla Parola Divina di parlare a ciascun fedele di ogni tempo e in ogni cultura e a ciascuna persona con la propria storia personale in modo sempre attuale, appropriato ed efficace. Un poco come un dipinto in cui il disegno sia completamente e chiaramente tracciato in tutti i suoi pur minimi tratti ma al quale sia possibile, aggiungendovi colori di volta in volta differenti, conferire una diversa luce o diverse tonalità ad un particolare anzichè ad un altro. E’ lo stesso principio per cui Cristo può rinnovare la Legge Ebraica potendo, allo stesso tempo, dire che “nemmeno uno iota della Legge passerà” e citare con grande libertà e in modo via via adattato alle circostanze i passi biblici. Non va mai dimenticato, infatti, che la dimensione prevalente della Fede Cristiana è quella escatologica, quindi storica, nel tempo, proiettata verso una “risoluzione” ed una “realizzazione” finale; per ciò stesso essa si muove sempre in una dimensione del “farsi” destinata a trovare una stabilità definitiva solo al momento del compimento escatologico finale.

A questa dimensione dinamica non può dunque non rifarsi anche il rapporto del credente con la Rivelazione: questa aspetto dell’approccio del fedele alla Divina Parola, debitore nei confronti della sua personale esperienza spirituale e religiosa nonchè della sua storia come individuo (personale, famigliare, culturale, lavorativa, ecc..) non interessa forse anche ciascun esegeta, filologo, teologo e financo ciascun sacerdote che dall’ambone parla alla comunità dei fedeli commentando le Letture della Domenica? E perchè mai il compositore che veste musicalmente i testi sacri dovrebbe esserne esente? Perchè questo dovrebbe renderlo inadatto a prestare la propria voce all’intero Popolo di Dio? Non si verifica lo stesso anche nelle Scritture, dai Salmi ai Libri Sapienziali fino a quelli Profetici, quando la preghiera di un singolo diventa al contempo quella di ogni fedele e dell’intero popolo di credenti? Non può forse la condivisione di tante diverse individuali riverberazioni ed echi che la Parola Rivelata suscita nella moltitudine delle anime dei cristiani, pur sempre raccolte all’interno di una Verità unica, chiara ed immodificabile, essere un grande patrimonio di ricchezza collettiva per l’intero popolo di Dio?

Nella seconda parte di questo articolo, dopo queste considerazioni di carattere generale e, in un certo senso, “teorico”, vedremo come esse possono trovare applicazione pratica; confronteremo, infatti, varie realizzazioni musicali di uno stesso testo, il celeberrimo salmo 23 (“Il Signore è il mio pastore”), e vedremo cosa esse ci dicono del modo in cui quel testo ha parlato all’animo dei compositori che l’hanno musicato, quale sia l’atteggiamento “interpretativo” che emerge e quali i messaggi del testo che esse intendono principalmente trasmettere.

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